Tag Archivio per: Italia

La moda adattiva, che ha visto la luce nel 2009 grazie all’innovazione di una stilista visionaria, rappresenta una rivoluzione nel mondo della moda, mirando a soddisfare le esigenze specifiche delle persone con disabilità, sia temporanee che permanenti. Questo approccio sartoriale non solo rende i capi di abbigliamento più accessibili e confortevoli per chi ha esigenze fisiche particolari, ma invia anche un messaggio potente sulla necessità di un mondo più inclusivo.

I capi di moda adattiva sono progettati per adattarsi al corpo in modo da offrire comfort senza sacrificare lo stile. Per esempio, le persone in carrozzina possono trovare pantaloni con cuciture non irritanti, privi di tasche posteriori e dotati di chiusure alternative come zip o velcro al posto dei tradizionali bottoni, facilitando l’uso quotidiano e aumentando l’autonomia personale.

Oltre agli aspetti funzionali, la moda adattiva gioca un ruolo cruciale anche a livello psicologico. Indossare abiti che si adattano bene e sono esteticamente piacevoli può significativamente aumentare la fiducia in sé e l’autostima, permettendo alle persone di sentirsi più accettate e integrate nella società. Questo tipo di moda insegna a riconoscere e valorizzare i propri limiti senza percepirli come barriere insormontabili.

Molti brand stanno investendo in questa direzione, creando collezioni che sono allo stesso tempo eleganti e accessibili, dimostrando che la moda può essere un veicolo di cambiamento sociale.

In conclusione, la moda adattiva non è solo un’espressione di stile, ma un’innovazione sociale che promuove l’inclusione e la diversità. Essa rappresenta un passo avanti verso una società che non solo accetta la diversità ma la celebra come una risorsa preziosa. La diversità non dovrebbe incutere timore, ma essere vista come un’opportunità per arricchire e variare il tessuto sociale.

Cristina Zangone

La mia “Pet-therapy” …

Avrò avuto all’incirca cinque anni, la volta che i miei genitori portarono me e mia sorella, più grande di un anno, a trascorrere qualche giorno o forse anche una settimana d’Estate presso la casa di campagna di questi nostri “zii”, nella località di Borgofranco sul Po, in provincia di Mantova; in realtà erano due cugini, con le rispettive mogli, di una mia prozia “acquisita”: moglie, cioè, del fratello più giovane di mio nonno materno… Insomma, non si può certo dire che tra di noi vi fosse una vera parentela! Ma ci accolsero ugualmente con lo stesso calore e affetto che ci ha sempre dimostrato questa cara prozia. Per me questo periodo fu uno di quegli eventi meravigliosi, “mitici”, quasi, che con un po’ di fortuna si possono vivere durante l’infanzia…

Dunque ci recammo nella loro piccola fattoria -e solo a pensarci mi rammento il fresco odore che si sprigionava dai filari di pere che la circondavano, posta poco prima dell’argine

del “Grande Fiume” – probabilmente in compagnia di mia madre e della stessa prozia, durante il soggiorno. Di quei giorni, la cosa più bella in assoluto, per me, fu il contatto con gli animali, che costituivano una mia passione fin dalla più tenera età; e i primi di cui mi ricordo furono le mucche: lo Zio Dario ne avrà avute quattro o cinque nella stalla, da latte, pezzate bianche e nere, più i due “misteriosi” manzi in un’altra stalla più piccola adiacente. Il suono dei loro muggiti, cupo e prolungato, mi attraeva e spaventava allo stesso tempo, ma quando giravano le loro teste per guardarmi, con i grandi occhi vellutati, e magari anche leccandosi l’umido muso, io mi “scioglievo” in un’emozione di stupore per la loro bellezza: le avrei volentieri accarezzate, se non fossi stata così intimorita dalla loro mole e dai loro movimenti… Lo zio aveva dato un nome a ciascuna di esse, o almeno così mi aveva raccontato, ma l’unico di cui mi ricordi era quello di Nerina, una mucca quasi interamente di quel colore. Era affascinante, poi, osservare come le mungeva, a mano, e posso ancora ricordarmi il buonissimo e intenso sapore del latte appena munto, tiepido, che costituì le nostre colazioni di quel breve periodo di vacanza.

Ci alzavamo presto, io e mia sorella, in un tripudio di eccitazione come solo i bambini sanno provare quando vivono simili momenti: ogni mattina, davanti a noi si spalancavano quelle lunghe giornate estive, apparentemente “vuote”, cioè libere da qualsiasi impegno, ma in realtà colme di nuove esperienze da vivere e da fare. Bastava poco, tra l’altro, per divertirsi: ricordo un giorno che trascorsi, quasi per intero, armata di uno schiacciamosche, a praticare questa attività per il bene della fattoria!… Un’altra volta, e si trattò probabilmente di un primo pomeriggio caldo e assolato, mentre  gli adulti si stavano concedendo un meritato riposo dalle quotidiane fatiche “rurali”, una mia cugina più grande mi aiutò ad aprire la porta a rete e ad introdurmi furtivamente nel pollaio, dove con grande entusiasmo mi cimentai per qualche tempo nell’inseguimento delle galline…senza intenzione di far loro del male, in realtà, ma solo per il divertimento di acchiapparle e tenerle un poco tra le mani…Naturalmente, però, loro non la presero affatto bene, correvano e svolazzavano starnazzando, fuggendo dove potevano, e non oso pensare per quanti giorni consecutivi, in seguito, non furono in grado di deporre le uova, a causa dello spavento che avevo provocato loro…

Dietro il pollaio, c’era un altro posto, un po’ “magico”, ben più silenzioso, e coperto, in penombra, nel quale si trovavano le gabbie dei conigli dello Zio Mario, l’altro zio: questi erano bianchi con gli occhi rosati, poiché albini, da allevamento; una volta lo zio ci portò a vedere i piccoli appena nati, che se ne stavano raggomitolati tutti insieme, nudi e ciechi, in apposite cassettine contigue alle gabbie delle mamme-coniglie, dove infatti queste avevano preparato il “nido”, con ciuffi del loro stesso pelo e paglia; e ci permise di tenere un momento fra le mani quelli invece più grandicelli: e intensa fu la sensazione di tenerezza nell’accarezzare il loro soffice mantello e le loro lunghe orecchie “spianate” contro il dorso, guardando i loro nasini rosa che non smettevano un attimo di fremere, arricciandosi buffamente, mentre  scalciavano con le  più grandi zampe posteriori, graffiando un pochino le nostre piccole braccia, sicuramente per la paura che dovevano sentire…

C’erano poi i “famosi” cani da caccia dello Zio Dario, che infatti era anche cacciatore: tutti di razza e ben addestrati, stando a ciò che dichiarava orgogliosamente lui… sebbene ora   io abbia più di un dubbio al riguardo; stavano in gabbiotti dotati di cucce, o a volte legati con la corda a cucce esterne, ed erano tanto puzzolenti quanto desiderosi di affetto e di carezze: “simil-segugi” di diversi tipi, dal pelo corto, o lungo, o ispido, che ululavano e ci saltavano addosso festosamente. Una volta, io e mia sorella non resistemmo, e liberammo tre cuccioloni, che si misero a scorrazzare entusiasti per l’aia, e riacchiapparli fu una vera impresa per tutti i componenti umani presenti…

La sera arrivava presto, dopo tanto divertimento, e allora era il momento di farsi un bel bagno caldo nella tinozza di zinco, indossare il pigiama e cenare; e, terminata la cena, di distribuire le pelli del salame e della mortadella ai gatti, che spuntavano ingordi per papparsele da ogni angolo dell’aia, avvicinandosi con passi felpati all’uscio di casa aperto e illuminato, con i loro occhi luminosi a loro volta, riflettenti quella stessa luce nell’oscurità, e facendo le fusa.

 Veniva così infine l’ora di andare a dormire, e, piene di sonno, io e mia sorella salivamo a piedi nudi la scala, e percorrevamo il pavimento di legno un po’ scricchiolante della stanza da letto a noi riservata, per poi infilarci tra le lenzuola fresche e addormentarci, sognando le nuove meravigliose imprese che avremmo compiuto il giorno seguente…

Vittoria Montemezzo

Nel mondo moderno, è inaccettabile che i viaggi aerei rappresentino ancora un ostacolo significativo per le persone con disabilità. Le testimonianze raccolte da una nota travel blogger gettano luce su una realtà preoccupante: le carrozzine trattate senza cura, il personale non adeguatamente formato per assistere i passeggeri con diverse disabilità, e tempi di attesa prolungati sono solo alcune delle sfide che questi viaggiatori devono affrontare.

Questo scenario evidenzia un problema più ampio che permea vari aspetti della vita quotidiana delle persone con disabilità, dalla scuola al lavoro, dal tempo libero ai servizi offerti, fino alla disponibilità di parcheggi adeguati. La mancanza di un approccio inclusivo e sensibile alle esigenze di queste persone rispecchia una carenza nel tessuto sociale e nei sistemi di supporto esistenti.

Affrontare efficacemente queste problematiche richiede un impegno collettivo e l’adozione di politiche inclusive che considerino le specifiche esigenze delle persone con disabilità. È fondamentale che le compagnie aeree, insieme a tutte le altre istituzioni coinvolte, adottino misure concrete per garantire che i viaggi siano accessibili a tutti, eliminando ogni forma di barriera fisica o attitudinale.

Inoltre, è essenziale promuovere una cultura dell’inclusione che valorizzi la diversità e riconosca l’importanza di offrire a ogni individuo le stesse opportunità di partecipazione attiva nella società. Solo attraverso un cambiamento significativo nell’approccio verso la disabilità sarà possibile costruire una società veramente inclusiva, dove viaggiare in aereo e fruire dei vari servizi non sia più fonte di ansia o disagio per le persone con disabilità.

Cristina Zangone

Sono nata a Milano e mi sono formata nel campo dell’informatica. Nonostante il mio attuale impegno nel mondo del lavoro, con due occupazioni, non ho mai smesso di studiare. La mia passione è viaggiare e scoprire nuovi luoghi, accompagnata spesso dalla musica che amo ascoltare. Nonostante le sfide della mia condizione, essendo una persona disabile e utilizzando una carrozzina, affronto la vita con determinazione e curiosità.

La cultura come cura

Il termine inglese “Welfare” ha il significato di “star bene, benessere”, e, per “estensione”, è diventato indicativo dell’insieme delle politiche sociali attuate dallo Stato nei confronti dei cittadini allo scopo di proteggerli e sostenerli, specialmente durante gli “avvenimenti” della vita che comportano rischi, problemi e disagi; tali politiche sono quindi rivolte particolarmente alle categorie di persone più fragili e bisognose, quali bambini, poveri, disabili e anziani.

Ma cosa s’intende per Welfare “culturale”? Esso non è altro che un nuovo modello di promozione del benessere e della salute delle persone e delle comunità, attraverso specifiche attività culturali, artistiche e creative; nuovo, almeno, in Italia, dal momento che nei paesi scandinavi, nel Regno Unito e in Canada viene sperimentato già da tre decenni. Tale modello è stato riconosciuto    efficace anche dall’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, e presuppone la collaborazione integrata tra professionisti di discipline diverse, e cioè quelle appartenenti alle istituzioni sociali e della salute in sinergia con quelle delle istituzioni di arte e di cultura. Le attività culturali diventano così un “fattore:

  1. di promozione della salute […];
  2. di benessere soggettivo e di soddisfazione per la vita […] e potenziamento delle risorse e della capacità di apprendimento;
  3. di contrasto alle disuguaglianze di salute e di coesione sociale […];
  4. d’invecchiamento attivo, contrasto alla depressione e al decadimento psicofisico […];
  5. d’inclusione e di potenziamento delle risorse per persone con disabilità anche gravi o in condizione di svantaggio o marginalizzazione anche estremi (ad esempio senza fissa dimora, detenuti ecc.);
  6. complementare di percorsi terapeutici tradizionali;
  7. di supporto alla relazione medico-paziente, attraverso le “medical humanities” e la trasformazione fisica dei luoghi di cura;
  8. di supporto alla relazione di cura, anche e soprattutto per i “carer” (cioè coloro che si prendono cura) non professionisti;
  9. mitigante e ritardante per alcune condizioni degenerative, come demenze e morbo di Parkinson.”

[dalla definizione della vicepresidente del “Cultural Welfare Center” A. Cicerchia, Al. Rossi Ghiglione, C. Seia, Welfare Culturale, Treccani, Roma 2020]

Alla cultura viene dunque riconosciuto il ruolo fondamentale e “scientificamente” provato di essere un determinante della salute individuale e sociale; fare in modo che ciò si realizzi è uno degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite.

“La Cultura come Cura” (di cui si è parlato all’incontro “Welfare è cultura” promosso a Brescia nel Settembre 2023, anno in cui Bergamo e Brescia sono state nominate Capitali della Cultura) non è da intendere però soltanto nel suo aspetto “terapeutico”, ma anche nel suo potere “trasformativo” degli individui e delle comunità: un “potere”, cioè, che consenta loro di uscire dalla propria condizione di fragilità. In questo contesto diventa quanto mai necessaria una nuova formazione del maggior numero possibile di operatori del sociale, che li porti cioè ad un cambiamento “culturale” e di concetto, appunto, spingendoli così a sperimentare nuovi progetti e metodi di lavoro comunitari, incontrandosi e dialogando con gli operatori della cultura.

A questo proposito, l’Italia non presenta attualmente politiche nazionali di Welfare Culturale, bensì soltanto realtà territoriali e reti locali, che hanno realizzato però progetti molto positivi; eccone alcuni esempi tra i più rilevanti:

  • IL “CIRCO SOCIALE” di “Casa Circostanza”, nato nel 2012 nel quartiere Barriera di Milano: esso, ci illustra l’operatrice Giovanna Sfriso, è un centro aggregativo rivolto a persone di tutte le età, e che promuove l’inclusione delle persone in condizione di fragilità, ospitando quindi scuole, gruppi di ragazzi, adolescenti e disabili, e proponendo loro laboratori di circo sociale, allo scopo di “crescere insieme”; ma che si muove anche sul territorio, recandosi esso stesso nelle scuole, in piazze, strade, giardini e nei centri diurni per disabili.
  •  L’ ASSOCIAZIONE “TEDACA’”, una compagnia teatrale fondata nel 2005 a Torino dall’assistente sociale teatrante Si

mone Schinocca: essa ha realizzato lavori incentrati sulla povertà, la migrazione, la discriminazione di genere, i diritti, il carcere e la scuola.

  • LO “SCIROPPO DI TEATRO”: una sperimentazione teatrale ideata da Silvano Antonelli -da 50 anni protagonista del teatro per ragazzi in Italia- partita nel 2021, e che, alla sua terza edizione nel 2023, ha coinvolto 11mila bambini, fra i 3 e gli 11 anni: essi sono stati inviati a teatro, insieme ai loro accompagnatori, con un “voucher-ricetta” prescritto da ben 253 pediatri aderenti all’iniziativa, per un costo di 3 Euro a spettacolo.
  • I MUSEI TOSCANI PER L’ ALZHEIMER: “La regione Toscana ha emanato nel 2019 un decreto in cui riconosce le proposte museali tra le prestazioni previste per la cura e il sostegno familiare nei confronti delle persone con demenza”, ci spiega Chiara Lachi , educatrice museale; dal momento che queste patologie coinvolgono la persona che ne è colpita e la sua famiglia, l’ambiente fisico e relazionale di un luogo rientrante nella categoria di “patrimonio museale” (comprendente musei veri e propri ma anche spazi espositivi, biblioteche, orti botanici ecc.) diventa quindi determinante per la possibilità di mantenere una buona qualità di vita.

In conclusione, penso che dovremmo auspicare che tali esempi, dimostratisi così efficaci, possano continuare ad espandersi nel nostro paese…

Vittoria Montemezzo  

Sono nata nel 1977, ho un diploma di liceo linguistico, mi piacciono i bambini, la natura, la storia e le culture antiche…e l’essere umano in generale. Dal 2015 sono insieme ad un compagno disabile in sedia a rotelle.

Si sta sviluppando un intenso dibattito sull’importanza dell’inclusione, un tema che va oltre il contesto scolastico per toccare tutti gli ambiti sociali. Presso la scuola Oliver Twist di Como, si sta valutando come rendere l’istituto veramente inclusivo per ogni studente, sia esso con disabilità o normodotato. Nonostante l’esistenza di regolamenti come il PEI (Piano Educativo Individualizzato), il RAV (Rapporto di Autovalutazione) e il PAI (Piano Annuale per l’Inclusività), oltre alle Linee Guida, gli sforzi compiuti finora sembrano insufficienti.

L’obiettivo dell’inclusività è porre ogni studente al centro del processo educativo, rispettando i ritmi e le peculiarità individuali, come enfatizzato da un documento ministeriale del 2001. È fondamentale che tutte le istituzioni, dalle scuole agli organi collegiali, e tutto il personale docente, inclusi gli insegnanti di sostegno, lavorino in sinergia per raggiungere questo scopo.

Tuttavia, l’inclusione non dovrebbe limitarsi ad essere un concetto puramente legislativo o teorico; è necessario che si traduca in azioni concrete e pratiche. È imperativo promuovere e diffondere la conoscenza dell’inclusività a beneficio di tutti.

In conclusione, è essenziale che ci muoviamo congiuntamente verso lo stesso obiettivo, sottolineando il principio che, quando c’è la volontà, si possono superare le barriere e realizzare un ambiente veramente inclusivo per tutti.

Cristina Zangone

Sono nata a Milano e mi sono formata nel campo dell’informatica. Nonostante il mio attuale impegno nel mondo del lavoro, con due occupazioni, non ho mai smesso di studiare. La mia passione è viaggiare e scoprire nuovi luoghi, accompagnata spesso dalla musica che amo ascoltare. Nonostante le sfide della mia condizione, essendo una persona disabile e utilizzando una carrozzina, affronto la vita con determinazione e curiosità.