Da cosa ha origine questa festa così popolare?

La parola “Halloween” deriva dal termine scozzese “All Hallows’ Eve”, dove “Eve” sta per “even” (poi contratta in “e’en” o “een”), che significa “sera” o “vigilia”, mentre “Hallows” è una parola arcaica per “Saints”, cioè “Santi”: è, in sostanza, la “Vigilia di tutti i Santi”, e corrisponde, praticamente, al nostro “Ognissanti” del 1° Novembre; soltanto che, essendone la vigilia, si svolge la sera prima, il 31 Ottobre. È una festività molto sentita nel mondo anglofono, che ormai ha preso piede anche in Italia e in diversi altri paesi, prevalentemente “occidentali”. Tuttavia, la sua origine è molto antica, risalente al Capodanno celtico, lo “Samhain”, che celebrava il passaggio dalla stagione estiva a quella autunno-invernale, e quindi la fine del raccolto e il suo immagazzinamento come riserva per i duri e freddi giorni a venire; in questo periodo, in cui si passava dalla luce delle lunghe giornate estive al veloce calare delle tenebre autunnali e invernali, si credeva che il confine tra il mondo terreno e l’“Aldilà” si assottigliasse, tanto da permettere alle anime dei defunti (che riposano sotto terra, proprio come i semi piantati in Autunno per l’anno a venire, durante l’Inverno) di oltrepassarlo per andare a trovare i vivi… La cosa era abbastanza inquietante! Per “ingraziarseli”, ed evitare eventuali vendette, la gente preparava del cibo, soprattutto dolci, da offrire loro in caso di visite, nonché delle luci per indicargli la strada di casa, che consistevano in candele racchiuse dentro rape intagliate a questo scopo… Ed ecco spiegati gli stuoli di bambini e ragazzi travestiti da fantasmi, streghe e mostri vari, che la notte di Halloween bussano alle porte delle case, muniti di appositi contenitori, pronunciando la famosa e minacciosa richiesta: “Dolcetto o Scherzetto?” (in inglese: “Trick or Treat?”); le figure impersonate rappresenterebbero gli spiriti “malintenzionati”, per acquietare i quali, ed evitare eventuali brutti scherzi da parte loro, la gente si premura di avere in casa una scorta sufficiente di dolciumi da regalargli… La celebre zucca illuminata all’interno sostituirebbe le primitive rape, poiché, oltre ad essere più grande e quindi più facile da intagliare, è un ortaggio che si trova più facilmente negli Stati Uniti, da dove questa tradizione è giunta fino a noi…Ma come mai proprio da qui, nonostante la sua origine sia celtica? Perché l’Irlanda è diventata la terra che ha ereditato maggiormente questa antica cultura, e quando, a partire dal 1800, molti Irlandesi emigrarono in America, spinti dalla povertà e in cerca di fortuna, portarono con sé queste usanze, che si diffusero poi a una gran parte del mondo occidentale. La zucca, con la sua smorfia ricavata nella scorza e la candela all’interno, si ricollegherebbe anche alla leggenda di “Jack-o’-lantern”: questi era un furbo fabbro irlandese, ubriacone, che riuscì ad ingannare più volte il Diavolo, incontrato una sera in un pub. Cominciò chiedendogli di trasformarsi in una moneta, che gli consentisse un’ultima bevuta prima di consegnargli la sua anima: con la sua astuzia, egli riuscì ad ottenere altri 10 anni di vita, al termine dei quali, però, il Signore delle Tenebre si ripresentò; ma, con un ulteriore stratagemma, Jack riuscì nuovamente ad evitare l’Inferno! Tuttavia, essendo stato in vita un grande peccatore, non gli fu permesso di entrare neanche in Paradiso, e così la sua anima fu costretta a vagare nel mondo dei vivi, scaldandosi e illuminandosi la via con un tizzone ardente lanciatogli dal Diavolo per scacciarlo dall’Inferno. La zucca-lanterna posta fuori dalle soglie delle case gli indicherebbe che lì non c’è posto per lui…

Simili usanze, concernenti il legame tra il mondo dei vivi e quello dei morti, in cui s’intrecciano antichi elementi pagani e cristiani, si riscontrano anche in varie zone d’Italia, e sono spesso caratterizzate dalla preparazione dei cosiddetti “Dolci dell’Anima”: le “fave dolci” o, appunto, “fave dei morti”, in Lombardia, Emilia-Romagna, Marche, e Umbria; le “ossa di morto”, sorta di biscotti oblunghi con questa forma, e poi la “puppacena” e la “martorana” in Sicilia; “o’ morticiello” a Napoli, goloso torrone glassato con cioccolato; “i papassinos”, dolcetti di pastafrolla con uva passa, mandorle, noci e spezie, che i ragazzini mascherati richiedono di casa in casa in Sardegna, esclamando: “sòe su mortu mortu!”…

Insomma, nonostante oggi molte sue manifestazioni “scadano” nel commerciale, la permanenza in molti luoghi di tradizioni antiche legate a questa festa rivela, forse, il bisogno ancestrale e comune di noi esseri umani di ricordare i nostri cari scomparsi dalla vita terrena, nonché di esorcizzare la morte stessa, potendoli magari incontrare nuovamente su questa terra almeno una volta all’anno, e cioè in questa magica notte, in cui è permesso attraversare quel velo sottile.

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Vittoria Montemezzo  

Sono nata nel 1977, ho un diploma di liceo linguistico, mi piacciono i bambini, la natura, la storia e le culture antiche…e l’essere umano in generale. Dal 2015 sono insieme ad un compagno disabile in sedia a rotelle.

Una cena tra amici disabili

Era già da un po’ di tempo che io e L., il mio compagno, disabile in sedia a rotelle, avevamo programmato una cenetta al Ristorante Indiano, assieme a due nostre amiche, una delle quali, A., disabile anche lei, è affetta da spasticità infantile. Questa, aggravata dagli esiti di una scoliosi purtroppo curata male, le dà problemi sia di postura che di deambulazione, per cui riesce sì a camminare in linea retta, ma procedendo con la schiena storta da una parte, e con le gambe ad “x”, e le punte dei piedi una verso l’altra… In sostanza, è sempre meglio che qualcuno le stia al fianco e la tenga sottobraccio quando cammina, per evitarle possibili cadute; quando invece si deve spostare autonomamente per raggiungere posti più lontani, utilizza un “macchinino-simil-scooter” – come lo chiamo io, ignorandone il nome – ed è proprio con questo che si è potuta recare al ristorante.

Io e L. eravamo tranquilli perché l’altra amica invitata avrebbe potuto aiutarla a mangiare nei momenti in cui avesse avuto bisogno, come, per esempio, quando è necessario tagliare qualche pietanza, dato che i piccoli movimenti involontari dovuti alla sua patologia le creano difficoltà in certe operazioni “di precisione” con i polsi e le mani. Potendo contare sull’aiuto di questa amica, quindi, io avrei potuto dedicarmi ad aiutare soltanto L., dato che anche lui, similmente, si trova in difficoltà in certe “situazioni” di un pasto, come, appunto, tagliare le pietanze, o raccogliere il fondo dei cibi più liquidi con il cucchiaio. Sfortunatamente, però, quasi all’ultimo momento, l’amica “aiutante” ha avuto un contrattempo e ci ha avvisati che non sarebbe potuta venire. Inoltre, presa dall’entusiasmo, e dimenticandosi di chiedercelo prima, aveva invitato anche un altro nostro amico disabile, F., un giovane non vedente, nello specifico. Si prospettava dunque una serata tutt’altro che facile: io “da sola” ad aiutare ben tre persone in difficoltà! Ce l’avrei mai fatta, riuscendo magari a mangiare qualcosa anch’io? Già mi vedevo ad imboccare ciascuno di loro, “a rotazione”, come i bimbi più piccoli di una scuola materna all’ora di pranzo.

Il ritrovo era previsto per le 20.15 circa, davanti al ristorante, ma, con il suo solito anticipo, A. alle 20 era già lì, e mi telefonò per annunciarcelo, mentre io e L. eravamo ancora in macchina, molto gentilmente accompagnati dalla sua disponibilissima mamma.

“Sì A., stiamo per arrivare!” le ribattei al telefono, e poi: “È già arrivato anche F.?” m’informai.

“Io non l’ho ancora visto” mi rispose lei.

Arrivati al posto consueto, nelle vicinanze, dove la madre di L. ci “scarica” con carrozzina e tutto, io e lui poi ci avviammo, e finalmente raggiungemmo il ristorante.

Ed eccoci dentro, dopo i saluti, ed esserci seduti al tavolo, alle prese con il menù, un momento piuttosto particolare delle nostre cene “etniche” (cioè, solitamente, al Ristorante Cinese o a quello Indiano, per l’appunto): ho infatti preso l’abitudine di portarmi carta e penna per segnare i piatti scelti da ognuno di noi, dopo aver elencato ad alta voce quelli presenti sul menù, ovviamente in italiano. Ho l’impressione che sia un buon metodo per facilitarci un po’ le cose, dato che A. è in difficoltà con la lettura e la scrittura, e L., il mio compagno, è eternamente indeciso e cambia idea facilmente (tendendo a prediligere i piatti più “complicati”, tra l’altro). Per non parlare poi di F., che, naturalmente, non può leggere.

Ok, prima fase raggiunta, dissi mentalmente a me stessa, dopo aver riferito tutti i “nostri menù”, con il nome indiano, al cameriere. Mi sentivo un po’ preoccupata per come si sarebbe svolto il seguito della serata, ma ero anche contenta di stare con L. e i nostri due amici; salutammo festosamente F., in particolare, perché era un bel po’ che non lo vedevamo, e gli chiesi come stava, e dei suoi ultimi traguardi sportivi, sapendo che lui ama e pratica diversi sport, tra i quali corsa e nuoto, in cui è davvero molto bravo. Nonostante la sua presenza non fosse stata prevista, per ragioni organizzative, era bello vedere e sentire dalle sue parole come fosse contento di essere lì con noi anche lui.

“Vitti, la pastiglia!” esclamò all’improvviso la previdentissima A., ricordandomi di estrarre dal portamonete di L. la compressa medicinale che lui deve assumere tre volte al giorno, in concomitanza dei pasti.

“Sì, giusto, grazie A.!” le risposi.

Ed ecco, dopo un po’, tramite il giovane e affabile cameriere, arrivare i tre gustosi antipasti richiesti, uno per ciascuno dei miei commensali: due “Mix-Veg. Pakora”, cioè un misto di verdure fritte in pastella di farina di ceci, e uno costituito da cubetti di formaggio fritti, sempre in pastella di ceci, di cui non ricordo il nome; comunque, tutti e tre da tagliare (

con forbici, l’unico strumento adatto che avevo), prima di poterli assaporare. Poi, gli svariati piatti principali, alcuni di essi molto “speziati”, e, infine, il dolce, un “Lassi”, una sorta di frullato di yogurt, zucchero, frutta e ghiaccio, davvero delizioso e rinfrescante.

La serata si svolse in allegria, risate e chiacchiere, tra cui, inevitabilmente, ci sono stati anche alcuni momenti un po’ “complicati”, come quando si è trattato di mangiare le “naan”, le tipiche focaccine indiane e di portare al palato i cibi più piccanti, con tanto di sudate e lacrime per tutti. Ma ciò ha aggiunto una nota di comicità alla serata, che, alla fine, è stata veramente piacevole e divertente, nonostante le difficoltà e le varie “acrobazie” cui ho dovuto ricorrere per aiutare, come potevo, i miei tre amici.

Vittoria Montemezzo  

Sono nata nel 1977, ho un diploma di liceo linguistico, mi piacciono i bambini, la natura, la storia e le culture antiche…e l’essere umano in generale. Dal 2015 sono insieme ad un compagno disabile in sedia a rotelle.

Sabato scorso, 16 settembre, alle ore 17, si è svolta in una frazione della mia città, Ferrara, una “camminata solidale” a favore di una fondazione-Onlus chiamata A.C.A.RE.F, nata proprio a Ferrara nel 2012 con lo scopo di sostenere progetti di ricerca per la cura delle malattie atassiche. Ma che cos’è l’Atassia?

Si tratta di una malattia degenerativa a dir poco tremenda, che porta a una progressiva perdita delle abilità più comuni, quali equilibrio e funzioni motorie, nonché a difficoltà sempre maggiori nel parlare, deglutire e respirare; il tutto nell’arco ristretto di 12-15 anni, dopo i quali il tempo per le persone che ne sono affette è esaurito… La meta di una cura definitiva non è stata ancora raggiunta, ma nel frattempo la ricerca prosegue fiduciosa, grazie anche ai sostegni ricevuti.

Io e L., il mio compagno disabile in sedia a rotelle, abbiamo un amico, M., affetto da questa malattia. La disabilità di L. presenta alcuni tratti “in comune” con l’atassia, per fortuna in maniera più “leggera”, se così si può dire, anche e soprattutto perché “bloccati” in un certo modo. Meno male che L. non ha problemi degenerativi (il che ovviamente costituisce una differenza sostanziale tra le due condizioni). Le manifestazioni esteriori sono la mancanza di equilibrio e un po’ di difficoltà nell’eloquio. Sarà per questo motivo, e per l’affetto che nutriamo nei confronti di questo amico, fatto sta che, quando possiamo, cerchiamo di contribuire, nel nostro piccolo, a questa buona causa, ad esempio partecipando a cene solidali o a manifestazioni come quella della camminata di sabato scorso. Da quando L. ha scoperto di avere la possibilità di spostarsi quasi autonomamente con un “handbike”, una “bicicletta manuale”, non ha più abbandonato questo mezzo. Quest’ultimo, nel nostro caso, non è né elettrico né “ibrido” – dotato cioè di entrambe le modalità di funzionamento, elettrica o manuale, a scelta – ma interamente manuale. In pratica, il suo utilizzo è faticosissimo, consentendo di “pedalare” unicamente con la forza delle braccia. Ma ciò sembra non dispiacere a L., dal momento che gli permette di rinforzarsi oltre che di spostarsi a suo piacimento (manovre permettendo). Tuttavia, è sempre accompagnato e “supervisionato” da qualcuno in bicicletta o a piedi (io, solitamente), dato che il mezzo non è particolarmente stabile.

Appena abbiamo saputo della camminata per l’A.C.A.RE.F., ci siamo iscritti e, arrivati al campo sportivo dal quale era prevista la partenza, abbiamo notato di essere gli unici con una handbike. Un ragazzino magrolino di circa 8 anni, con un berretto con visiera, ci osservava incuriosito. Quando cominciammo la marcia, notai che era l’unico bambino presente, in mezzo a disabili in carrozzina con i loro accompagnatori e ad altre persone di diverse età.

Il percorso scelto era splendido: un tratto della pista ciclabile lungo il Canale del Burana, nel Ferrarese, che per me è un’oasi naturalistica. Io e L. lo conosciamo bene e lo consideriamo la nostra oasi di pace e serenità, da percorrere con l’“handbike”.

La vegetazione, composta da campi di grano, mais, erba medica e a tratti anche da colza, girasoli, meli e peri, era affiancata da grandi pioppi. A un certo punto, abbiamo incontrato una vecchietta che raccoglieva bacche bluastre da un arbusto, simili ai mirtilli. Ci assicurò che fossero ottime per un risotto.

Mentre proseguivamo, il giovane ragazzino si informò sul funzionamento dell’handbike e sulla storia di L. Alla fine, spero che abbia portato con sé un bel ricordo di questa esperienza, un momento prezioso trascorso insieme in mezzo alla natura, in attesa che si trovi una cura per l’Atassia.

Vittoria Montemezzo

Sono nata nel 1977, ho un diploma di liceo linguistico, mi piacciono i bambini, la natura, la storia e le culture antiche…e l’essere umano in generale. Dal 2015 sono insieme ad un compagno disabile in sedia a rotelle.

“Ehm… lo so”, se n’è parlato forse fin troppo di questo spot pubblicitario della catena di supermercati Esselunga, ma dei motivi ci devono essere… Ovviamente, si sono scatenate polemiche pro e contro, assumendo colorazioni politiche differenti, in genere provenienti le prime più da destra e le seconde più da sinistra; c’è anche chi si è indignato per la strumentalizzazione di situazioni così delicate, intime, per l’uso pubblicitario. D’altra parte, è dall’inizio della sua esistenza, e per sua intrinseca natura, che la pubblicità tende a suscitare emozioni e sentimenti nei possibili acquirenti, proprio per convincerli ad acquistare i prodotti pubblicizzati o a fare la spesa in un determinato supermercato, in questo caso. Indubbiamente, questa volta ha colpito nel segno, ritraendo una realtà sempre più diffusa in Italia, nonché negli altri paesi più sviluppati: quella delle famiglie divise, e cioè con i genitori che si sono separati.

Questa è certamente una realtà sconfortante, al di là di un giudizio morale, perché sicuramente è meglio che due genitori che scoprono di non andare d’accordo si separino, piuttosto che protraggano i loro litigi, spesso molto aspri, con i figli presenti. Comunque, per questi ultimi, specie se piccoli, il dolore di perdere quell’unità così confortevole e confortante in cui, in qualche modo, si sentivano e credevano all’inizio, all’interno del nucleo famigliare. E per quanto i genitori, perlomeno quelli bravi, cerchino in seguito di porvi rimedio, dimostrandosi presenti affettivamente, ognuno dei due a suo modo, e comunicando loro che questa separazione dipende unicamente da un problema fra la mamma e il papà, e non è assolutamente una loro responsabilità, questa ferita non sarà mai del tutto rimarginata. Parlo almeno da una mia esperienza personale ravvicinata. Purtroppo, succede di frequente che i bambini tentino strenuamente di riunire e riappacificare i genitori, con metodi struggenti; proprio come avviene, realisticamente, in questa pubblicità, che sembra quasi un piccolo film, con il dono della pesca al papà da parte della bimba, la quale invece sostiene convinta che provenga dalla mamma.

A questo punto i genitori dovrebbero cercare di essere saggi e comprensivi, come sembra fare il padre della piccola, promettendole che più tardi telefonerà alla mamma per ringraziarla; tuttavia, purtroppo, avviene spesso il contrario, cioè che i genitori rimangano fermi sulle loro posizioni egoistiche, e strumentalizzino i figli, anche se magari inconsapevolmente, cercando, ciascuno dei due, di attrarli dalla propria parte, contendendosene l’affetto, invece di pensare a quello che dovrebbe essere il loro bene.

La cosa triste è che, al giorno d’oggi, nella nostra società manca spesso una vera e propria quanto mai necessaria manutenzione dei sentimenti, come si è espresso lo psichiatra, sociologo ed educatore Paolo Crepet, commentando questo spot, che ritiene molto rappresentativo di tante realtà famigliari in Italia. A questo proposito, diverse coppie che si sposano -nonostante ormai il matrimonio sia diventato la forma di convivenza meno diffusa- sembrerebbero farlo più per apparenza e quasi un conclamato rito di passaggio che per vera convinzione. E infatti spesso molti matrimoni finiscono, così come accade, però, anche a tante unioni di fatto; e spesso anche mettere al mondo dei figli parrebbe corrispondere più alla dimostrazione a sé stessi e agli altri della propria capacità di procreare e avere una discendenza, che al desiderio di dedicare il proprio amore a qualcuno, aiutandolo a crescere. Non che in passato le cose fossero migliori, e se, a differenza di oggi, i matrimoni duravano, era più per convenzione che per convinzione: la separazione era infatti malvista, e si doveva restare uniti per forza, pur non andando d’accordo, per salvare le apparenze.

In sostanza, credo che oggi noi adulti abbiamo una vera e propria sfida davanti a noi: conoscere noi stessi, capendo cioè chi siamo veramente, e cosa veramente vorremmo poter raggiungere. E se ciò che desideriamo fosse ricreare quella piccola società in evoluzione che è una famiglia, dovremmo fondarla sull’amore, il rispetto e la responsabilità, nonché sulla volontà di dialogare e la tolleranza, prima di tutto con la persona -che dovremmo aver conosciuto e scelto altrettanto bene- con cui abbiamo deciso di condividere questa Vita, per poi poter accompagnare i nostri figli verso la loro, nel miglior modo possibile.

Vittoria Montemezzo

Sono nata nel 1977, ho un diploma di liceo linguistico, mi piacciono i bambini, la natura, la storia e le culture antiche…e l’essere umano in generale. Dal 2015 sono insieme ad un compagno disabile in sedia a rotelle.

Insegnare ai giovani ad amare – veramente

L’Amore: spesso lo si dà per scontato, si crede di conoscerlo già. Intuitivamente, si pensa di sapere di cosa si tratta ma, a pensarci bene, mi sembra che, in realtà, sia qualcosa che si debba ‘acquisire’ per poterlo poi ‘trasmettere’ o ‘insegnare’. Questo, ovviamente, a patto che chi intenda trasmetterlo lo abbia a sua volta realmente compreso e vissuto.

In questi tempi sembra esserci, invece, un grande “analfabetismo sentimentale”: l’Amore viene confuso e sostituito con il possesso, l’apparenza, il “successo sociale”. L’Amore, quello vero, non si può raggiungere in fretta e furia, al contrario, va “assorbito” lentamente, giorno per giorno, e praticarlo richiede fatica, volontà, dedizione… Se ci guardiamo intorno con sincera attenzione, possiamo notare quanto sia diventato essenziale imparare a amare.

Quando così spesso assistiamo ad orribili fatti come stupri e violenze, anche da parte di giovanissimi: cosa può portare a tutto questo, se non una fondamentale carenza di “apprendimento dei sentimenti”?

Magari si pensa che, per amare i propri figli, sia giusto dar loro “tutto”, riempirli di cose materiali, concedere loro tutto ciò che chiedono; ma poi, andando una sera in pizzeria, si possono vedere famiglie dove ciascun componente è totalmente assorbito dal mondo che compare sul suo cellulare per quasi tutta la durata della cena, salvo brevi pause per inghiottire il cibo… quando, invece, potrebbero essere occasioni da non perdere per stare insieme “veramente”, e “scaldarsi il cuore”, raccontandosi com’è andata la giornata, confrontandosi, scambiandosi opinioni, dicendosi magari anche ciò che non va…

E’ come se ognuno si chiudesse in sé stesso, e i ragazzi, in particolare, sono sempre più soli, benché possano avere una fittissima -ma fittizia, appunto- vita sui “social” (al posto di una vera vita sociale): spesso, infatti, la tecnologia non viene utilizzata in modo proficuo, ma solo come mezzo per illudersi di far parte di qualcosa… il che è una necessità legittima dell’essere umano, che però può essere raggiunta soltanto attraverso un contatto umano autentico…

Certo, instaurare relazioni vere con gli altri non è una cosa semplice, richiede un certo sforzo, un “dialogo”, un venirsi incontro l’un l’altro, e a volte anche di “scendere a compromessi” … Bisogna inoltre imparare anche a discutere “civilmente”, a controllare la propria rabbia, ad incanalarla in qualcosa di costruttivo e non offensivo, nonché ad esercitare la pazienza e la tolleranza…

Se questi valori non vengono assimilati fin dalla più tenera età, se fin da piccoli si è vissuti in una situazione di grave “trascuratezza emotiva”, può subentrare un vuoto incolmabile, che, specie se accompagnato da “esempi” negativi da parte di adulti violenti e/o abusanti, può anche sfociare in comportamenti del tutto inaccettabili e disumani. Per essere adulti veramente responsabili, dovremmo prima di tutto “guardarci dentro”, per capire se c’è qualcosa che è andato “storto”, e cercare di porvi rimedio, per poi trasmettere ai nostri figli, fin da bambini, una qualità fondamentale nella vita umana: l’empatia. Essa consiste, in sostanza, nella capacità di “mettersi nei panni degli altri”, e cioè il riuscire a riconoscere le emozioni e i sentimenti altrui nelle varie situazioni e condizioni, soltanto comprendendo

 che gli altri sono “come noi”, infatti, si può e si deve raggiungere il rispetto reciproco, altrettanto fondamentale nelle relazioni umane: nessuna persona può essere trattata come un oggetto.

Nello specifico, guardando agli ultimi, terribili episodi di cronaca, è a dir poco urgente che i ragazzi maschi riconoscano le ragazze come persone, esattamente come loro, degne di rispetto e di cura; e, similmente, queste ultime devono essere abituate dagli adulti ad avere rispetto anche per sé stesse, ed aiutate a riconoscere il loro valore al di là dell’apparenza fisica.

Empatia e Rispetto, dunque, dovrebbero diventare due aspetti fondamentali nell’educazione dei giovani, e possono essere trasmessi loro soltanto dall’azione congiunta della famiglia e della scuola: nessuna di queste due, infatti, potrebbe riuscire in questo difficile compito da sola, senza la collaborazione e il supporto convinti e costanti dell’altra. Solo una volta raggiunti questi due obiettivi, si può aprire la strada per un amore autentico e profondo.

Vittoria Montemezzo

Sono nata nel 1977, ho un diploma di liceo linguistico, mi piacciono i bambini, la natura, la storia e le culture antiche…e l’essere umano in generale. Dal 2015 sono insieme ad un compagno disabile in sedia a rotelle.