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Dai miei ricordi scolastici, ciò che mi aiutò a comprendere e “imprimere” meglio nella mente cosa fosse stato l’Impero Bizantino fu un piccolo racconto, che si trovava nel libro di Narrativa della Seconda Media, incentrato sulla figura bambina di Teodora, la futura moglie di Giustiniano, il celebre imperatore dell’Impero Romano d’Oriente dal 527 al 565 d.C.; tale Impero, detto appunto anche “Bizantino”, dall’antico nome della sua capitale, Bisanzio -ma che all’epoca si chiamava Costantinopoli, dal nome dell’Imperatore Costantino, suo fondatore nel 395, e che oggi è l’odierna Istanbul-, raggiunse il suo massimo splendore proprio durante il regno e la guida di questi due famosi coniugi. E’ proprio in questo periodo che “entrò in scena” la città italiana di Ravenna, conquistata dal generale Belisario proprio per conto di Giustiniano, al termine della guerra contro i Goti: essa divenne la capitale dell’Esarcato d’Italia, nonché un importante centro di scambio culturale tra Oriente e Occidente.

 Ancora oggi possiamo renderci conto di tutto questo, o, perlomeno, cercare d’immaginarlo, ammirando le magnifiche raffigurazioni a mosaico che si trovano in questa città, nella Basilica di San Vitale, in cui i due imperatori consorti si stagliano splendenti e solenni sullo sfondo dorato, attorniati dalla loro corte. E fissando lo sguardo in quello apparentemente impassibile di lei, Teodora, e benché si presenti avvolta in una veste di porpora, e così riccamente e sfarzosamente ingioiellata, nonostante la sua apparenza così seria e regale, non riesco a trattenere nella mia mente una rapida immagine di quegli stessi profondi occhi scuri, attraversati però da un guizzo vivace di allegria e insolenza, proprio al ricordo di lei ragazzina in questa storia letta alle medie: frutto d’invenzione, naturalmente, per poter attrarre le menti dei giovani studenti di quest’età, e tuttavia così plausibile, rispetto a ciò che dovette effettivamente essere la sua fanciullezza.

La maggior parte d’informazioni che abbiamo riguardo alla sua personalità e alla sua vita, decisamente avventurosa, provengono dagli scritti dello storico militare e politico Procopio di Cesarea: il quale però nutriva avversione nei confronti del governo di Giustiniano, motivo per cui probabilmente esse sono in parte deformate o esacerbate da questa sua visione delle cose; inoltre le sue opinioni appaiono spesso contrastanti, a volte criticando e altre volte lodando l’operato dei due imperatori…

INFANZIA, ADOLESCENZA E GIOVINEZZA

Dunque, Teodora nacque probabilmente a Costantinopoli, (da Costantino chiamata anche “Nova Roma”, a sottolinearne la continuità con l’Impero Romano, dopo la sua scissione in parte Orientale e parte Occidentale) intorno al 500 d.C.: sua madre era un’attrice e danzatrice nel famoso Ippodromo-Circo della città, mentre il padre, di nome Acacio, faceva il custode di animali nello stesso; e aveva due sorelle, Comitò, la maggiore, e Anastasia, la minore. Procopio la descrive piccola ed esile, ma molto bella, come anche le sue sorelle, bruna e con occhi scurissimi; e pare che fosse anche spregiudicata, spiritosa e intelligente. L’ambiente in cui crebbero le ragazzine fu quello del circo, naturalmente, e presto la loro madre, anche a causa della morte prematura del marito, dovette avviarle alla sua stessa “carriera” per poterle mantenere, e all’epoca questa comportava spesso anche la prostituzione; ma come fece quindi una fanciulla di così umile origine a diventare la moglie di un imperatore?  Procopio narra di una sua adolescenza dissoluta, dovuta proprio alla sua “professione”, a causa della quale una volta rimase anche incinta, da un uomo rimasto ignoto, al quale affidò poi il bambino, chiamato Giovanni; il padre lo  portò con sé e lo crebbe in Arabia, svelandogli l’identità di sua madre, diventata nel frattempo moglie dell’imperatore Giustiniano, soltanto quando si trovò in punto di morte: il figlio decise così di farle visita, ma ella lo affidò poi alle cure di una persona fidata, tenendo la cosa nascosta a Giustiniano, per timore di una sua reazione. Pare che non molto tempo dopo ebbe anche una figlia, della quale invece si prese cura, cercando anche di assicurarle uno sposalizio con una persona importante, una volta che fu divenuta imperatrice.

LA “CONVERSIONE” E L’INCONTRO CON GIUSTINIANO

Ciò avvenne però in seguito, mentre verso il 518 Teodora ragazza conobbe un certo Ecebolo, governatore della Libia Pentapoli: i due ebbero una relazione, e vissero insieme in questa provincia per un po’, ma poi lui si stancò di lei e la cacciò; ritrovandosi in miseria, Teodora fu costretta allora a vagare lungo la costa africana per tornare verso oriente, e per mantenersi dovette nuovamente ricorrere alla prostituzione. Ma quando giunse ad Alessandria d’Egitto, conobbe il patriarca e il teologo monofisiti Timoteo 3° e Severo di Antiochia, e probabilmente colpita da questa corrente teologica cristiana dell’epoca, il Monofisismo -sostenente la tesi secondo la quale Gesù Cristo avrebbe in sé soltanto la natura divina e non quella umana- abbandonò la sua professione e divenne come una paladina di tale dottrina. Fu proprio in questo periodo, nel 522, che conobbe Giustiniano (tramite l’amicizia con una ballerina di nome Macedonia): questi non era ancora imperatore, ma lo era suo zio Giustino, del quale lui stava “seguendo le orme”, e aveva circa 20 anni più di lei; e probabilmente rimase profondamente colpito dalla sua bellezza e intelligenza. Le leggi dell’epoca non permettevano ad un uomo di alto rango come lui di sposare una donna di umile origine, e inoltre dal passato così “scandaloso”, ma, godendo della stima del suo potente zio, egli riuscì infine a persuaderlo a cambiare questa norma; i due poterono quindi sposarsi, e, nel 527, alla morte di Giustino, Giustiniano divenne Imperatore, associando subito a sé Teodora, con il titolo di “Augusta”. E fin da subito la giovane dimostrò un carattere forte e volitivo, nonché una spiccata abilità politica, interessandosi alle questioni di corte, sia politiche e militari che religiose, e spesso influenzando l’operato del marito, che non mancava d’interpellarla al riguardo; non bisogna però credere che egli fosse succube di lei, piuttosto nutriva una profonda stima e fiducia nei suoi confronti : non sempre la pensavano allo stesso modo, ma seppero sempre trovare l’accordo più adatto per affrontare le situazioni che si presentavano loro, giungendo nei fatti a governare insieme.

L’IMPERATRICE E LA SUA EREDITA’

 In particolare, Teodora dimostrò le sue forza interiore, capacità e prontezza durante la rivolta di Nika, nel 532, una grande sommossa popolare a causa della quale Giustiniano rischiò addirittura di perdere il trono: le due fazioni-tifoserie dell’Ippodromo di Costantinopoli (proprio quello in cu era cresciuta lei), i Verdi e gli Azzurri, si coalizzarono contro l’Imperatore, esasperati dall’inasprimento fiscale che egli aveva attuato per sostenere economicamente le sue conquiste, e misero a ferro e fuoco la città, arrivando persino a distruggere il vestibolo del Palazzo Imperiale e la basilica di Santa Sofia. Giustiniano era sul punto di fuggire, le navi erano già pronte nel porto, quando Teodora pronunciò il suo discorso: se lui voleva andarsene, che facesse pure, ma lei sarebbe rimasta, andando incontro al proprio destino, come un vero sovrano avrebbe dovuto fare, in quanto “Il trono è un glorioso sepolcro e la porpora il miglior sudario”; a quel punto Giustiniano desistette dal suo intento, e, con l’aiuto dei suoi generali Belisario e Narsete, represse duramente la rivolta. In seguito diede avvio alla ricostruzione di Costantinopoli, e in soli cinque anni la Basilica di Santa Sofia acquisì l’aspetto che ha ancora oggi.

L’ importanza di Giustiniano come imperatore è legata anche alla sua raccolta e sistemazione delle leggi del diritto romano nel famoso “Corpus iuris civilis”, divenuto la base di tutte le legislazioni che seguirono fino ad oggi; e fu grazie all’influenza di Teodora che, all’interno di questo, egli promulgò diverse leggi attinenti al diritto matrimoniale che migliorarono di molto la condizione femminile dell’epoca.

In sostanza, sono tante e spesso discordanti le immagini che ci giungono dal passato riguardo a questa imperatrice, lasciandoci nel dubbio: “dissoluta” e “peccatrice”, ma anche pia e devota; avida di potere e a volte persino crudele e spietata con i suoi nemici, con chi voleva ostacolarla, ma anche sensibile, attenta e generosa nei confronti di categorie deboli come le prostitute e i loro figli, dei quali conosceva bene i problemi e le difficoltà, avendoli vissuti in prima persona. Sicuramente una donna forte, coraggiosa e intelligente, con doti politiche non indifferenti, con cui contribuì non poco al successo del governo di suo marito; che la consultava prima di prendere ogni decisione, e che, quando ella morì, nel 548, neanche a 50 anni, a causa di un tumore al seno (uno dei primi casi documentati), non si risposò più, mentre il suo potere a poco a poco diminuì e le condizioni dell’impero peggiorarono. D’altra parte, egli non aveva più al suo fianco “l’onoratissima consorte che Dio gli aveva dato” (il nome Teodora in Latino significa “Dono di Dio”) e il suo “dolcissimo incantesimo”, come amava chiamarla, da perfetto innamorato…

Vittoria Montemezzo

La convivenza tra l’essere umano e gli animali selvatici

Quando ero piccola, andavo a trovare i miei genitori nel lettone la domenica mattina, e capitava che io e mio papà giocassimo “agli orsi”, più o meno in letargo, per mio padre, immagino… Io abbracciavo la sua schiena, di fianco, e cominciavo ad emettere i mugolii dell’orsetto, ai quali lui rispondeva con quelli più profondi di Papà Orso; immagino che, dopo un po’ di quella cantilena, anche mia madre, Mamma Orsa, si risvegliasse dal letargo… A proposito di lei, mi ricordo che una volta – avrò avuto due o tre anni – mi regalò un orsacchiotto morbido e peloso, fatto “a guanto”, nel quale, cioè, si poteva infilare la mano per farlo muovere, di nome Bernie, che io abbracciai con entusiasmo: ce l’ho ancora, e dopo avergli fatto fare un bel giro in lavatrice, adesso ci gioco con la mia nipotina di sette mesi… In effetti, l’orsacchiotto è un tipico compagno di giochi dei bambini piccoli, forse perché la fisionomia di questo animale appare così morbida e “pacioccona”… Ma in realtà, in natura, al di là del suo aspetto tenero e goffo, l’Orso è molto altro, e, nonostante la sua dieta sia in genere prevalentemente onnivora (perlomeno negli habitat naturali del nostro paese), appartiene di fatto alla categoria dei grandi carnivori, ed è un animale dotato di grande forza e anche di ferocia, all’occorrenza, nonché di un’insospettabile agilità; l’essere umano non fa certo parte delle sue prede, e solitamente lo rifugge volentieri, tuttavia, se “messo alle strette”, se avverte cioè di non avere una via di fuga vicino a sé, o se magari si tratta di una femmina con i cuccioli, che senta di doverli proteggere, può diventare aggressivo e veramente pericoloso… Come, purtroppo, è avvenuto di recente, in Trentino, nei confronti di un giovane “runner”, cioè corridore, Andrea Papi, che era solito praticare il suo sport sui sentieri del monte Peller: l’orsa in questione, chiamata con la sigla JJ4 (come si usa in etologia), è stata responsabile della sua aggressione e uccisione. Non si sa bene se questa abbia visto arrivare il runner all’improvviso, perché probabilmente di corsa, e quindi si sia spaventata, o se avesse avuto con sé i suoi tre “cuccioloni”, ormai di due anni, in fase di fine svezzamento; ad ogni modo, questo è stato il primo attacco mortale provocato da un orso in Italia, si legge su Internet e sui giornali.

Il fatto è che JJ4 è una dei figli di Jurka e Joze (dalle iniziali dei loro nomi la sigla JJ che la identifica), due dei capostipiti del progetto “Life Ursus”, cioè il progetto, finanziato dall’Unione Europea, di reintroduzione dell’Orso Bruno sulle Alpi Centrali, dove infatti questo animale si stava estinguendo, in seguito a un lungo periodo di persecuzione da parte dell’uomo: esso si è svolto tra il 1999 e il 2002, con la cattura in Slovenia di dieci esemplari e il loro rilascio in Trentino, nel Parco dell’Adamello Brenta. E pare che qui quei plantigradi si siano trovati così a loro agio da riprodursi fino a raggiungere il considerevole numero di circa un centinaio, cucciolate escluse; in questo modo però la situazione è “sfuggita di mano”, poiché inizialmente era stato previsto che la loro popolazione si sarebbe distribuita in un’area più vasta del solo Trentino, dove invece si è concentrata. Il risultato è quindi che ora ci sono troppi orsi in un’area fortemente “antropizzata”, e dunque gli incontri ravvicinati tra le due specie – gli orsi e gli umani – sono diventati molto più frequenti… Tra l’altro, non è stata data sufficiente importanza all’educazione “culturale” delle persone, abitanti e turisti, in materia di rapporto con gli animali selvatici: l’orso, si diceva, è un animale tendenzialmente schivo nei confronti dell’uomo, e in genere cerca di evitarlo; ma se, ad esempio, vengono lasciati in giro avanzi di cibo, o se i rifiuti non sono ben gestiti, oppure se gli viene offerto da mangiare “a buon mercato”, magari per scattargli una fotografia, col tempo può diventare più confidente e avvicinarsi ai paesi; se poi si va a spasso con i cani, per di più non tenuti al guinzaglio, nelle “sue” zone, e questi magari gli si lanciano contro abbaiando, oppure si percorrono troppo silenziosamente le stesse, tanto da sorprenderlo “impreparato” al nostro arrivo… beh, con tali comportamenti parrebbe proprio che noi umani siamo andati “a cercarcela”, la situazione potenzialmente pericolosa… Certo, se un orso impara ad aggredire o addirittura ad uccidere l’uomo, come nel caso del povero giovane corridore, diventa un esemplare “problematico”, e in questi casi la legge può stabilirne anche l’abbattimento, ma questa dovrebbe essere davvero l’ultima “soluzione”… Tante cose andrebbero riviste e “messe a posto”, compreso il monitoraggio dei plantigradi e dei loro spostamenti, in particolare delle femmine con i cuccioli.

Un esempio più positivo di convivenza con questo animale ci viene dal PNALM, cioè il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, sugli Appennini: qui gli abitanti sono di meno, e anche l’afflusso turistico è inferiore; inoltre, la specie di Orso Bruno che vi abita è “endemica”, vive cioè solo lì, ed è in realtà una sottospecie dell’Orso Bruno Euroasiatico (quello che invece popola il Trentino): si tratta dell’Orso Bruno Marsicano, che è più piccolo di dimensioni e anche meno aggressivo, e conta una popolazione nettamente inferiore, appena cinquanta individui. Inoltre, è proprio diversa la sua “gestione” da parte della gente: ad esempio, i pastori sono consapevoli che ogni anno verrà predata qualche pecora dall’orso, ma che di questo saranno risarciti, mentre per i turisti sono previste regole ben precise, come non uscire dai sentieri tracciati e divieto di portarsi al seguito cani, o entrare con cavalli, muli o asini, o anche mezzi meccanici come mountain-bikes, nonché norme di comportamento da tenere in caso d’incontro: fermarsi, non urlare, non scappare di corsa ma indietreggiare lentamente per lasciare all’ animale una via di fuga… Tuttavia anche in Abruzzo si è poi verificato di recente un “fattaccio” legato alla presenza del plantigrado: un’orsa chiamata Amarena, per via della sua passione per questi frutti, e madre particolarmente prolifica diventata un simbolo del Parco, è stata uccisa con una fucilata nel paese di S. Benedetto dei Marsi, in provincia dell’Aquila, da un uomo che se l’è vista entrare nella sua proprietà, vicino al pollaio: l’uomo ha raccontato di aver agito d’istinto, per paura. In realtà Amarena non si era mai dimostrata aggressiva, ma era diventata così confidente, si era cioè così abituata alla presenza umana, da arrischiarsi a compiere diverse “escursioni” nella zona, spesso seguita dai suoi cuccioli…

“Un esempio più positivo di convivenza con questo animale ci viene dal PNALM, ovvero il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, sugli Appennini: qui gli abitanti sono meno numerosi e anche l’afflusso turistico è inferiore. La specie di Orso Bruno che vi abita è ‘endemica’, ossia vive solo in quella zona, ed è in realtà una sottospecie dell’Orso Bruno Euroasiatico (a differenza di quello che popola il Trentino): si tratta dell’Orso Bruno Marsicano, che è più piccolo nelle dimensioni e anche meno aggressivo, e conta una popolazione nettamente inferiore, di circa cinquanta individui. La ‘gestione’ di questa specie da parte della popolazione locale è piuttosto diversa: ad esempio, i pastori sono consapevoli che ogni anno qualche pecora verrà predatta dall’orso, ma verranno risarciti per le perdite. Ai turisti, invece, sono imposte regole precise: è vietato uscire dai sentieri tracciati, portare cani, entrare con cavalli, muli o asini, o utilizzare mezzi meccanici come mountain-bike. Sono inoltre previste norme di comportamento in caso d’incontro con un orso: fermarsi, non urlare, non scappare di corsa ma indietreggiare lentamente per lasciare all’animale una via di fuga. Tuttavia, anche in Abruzzo si è verificato di recente un incidente grave legato alla presenza dell’orso: un’orsa chiamata Amarena, nota per la sua predilezione per questi frutti e madre particolarmente prolifica, simbolo del Parco, è stata uccisa con un colpo di fucile nel paese di S. Benedetto dei Marsi, in provincia dell’Aquila, da un uomo che l’ha sorpresa nella sua proprietà, vicino al pollaio. L’uomo ha dichiarato di aver agito d’istinto, per paura. Amarena, che non si era mai dimostrata aggressiva, era diventata così confidente, ovvero abituata alla presenza umana, da compiere diverse ‘escursioni’ nella zona, spesso seguita dai suoi cuccioli. Per lei, purtroppo, è finita male. D’altra parte, l’orsa JJ4, dopo essere stata ritenuta ‘esemplare problematico’ a seguito di una complicata battaglia legale, è stata catturata e trasferita al centro faunistico del Casteller di Trento. Attualmente la LAV, Lega Anti-Vivisezione, sta insistendo per il suo trasferimento in un ‘santuario’, ovvero un rifugio per orsi in Romania, dove potrebbe vivere in spazi e condizioni migliori. In conclusione, l’orso si comporta naturalmente come tale, e visto che il suo ripopolamento in Italia è stato fortemente voluto per salvaguardare un’importante biodiversità che stava scomparendo, dovremmo essere noi esseri umani, in un certo senso, ad ‘adattarci’ a lui in modo responsabile, rispettando anche la sua ‘privacy’. Lo stesso discorso vale per il lupo, sebbene in un contesto diverso. In fondo, gli animali sono nostri ‘compagni di viaggio’ nella vita su questo pianeta, un mondo così complesso che rischierebbe di diventare molto più triste se fosse privato dei suoi aspetti più ‘selvaggi’ e misteriosi, elementi affascinanti che arricchiscono anche le nostre storie e miti.”

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Vittoria Montemezzo  

Sono nata nel 1977, ho un diploma di liceo linguistico, mi piacciono i bambini, la natura, la storia e le culture antiche…e l’essere umano in generale. Dal 2015 sono insieme ad un compagno disabile in sedia a rotelle.

Da cosa ha origine questa festa così popolare?

La parola “Halloween” deriva dal termine scozzese “All Hallows’ Eve”, dove “Eve” sta per “even” (poi contratta in “e’en” o “een”), che significa “sera” o “vigilia”, mentre “Hallows” è una parola arcaica per “Saints”, cioè “Santi”: è, in sostanza, la “Vigilia di tutti i Santi”, e corrisponde, praticamente, al nostro “Ognissanti” del 1° Novembre; soltanto che, essendone la vigilia, si svolge la sera prima, il 31 Ottobre. È una festività molto sentita nel mondo anglofono, che ormai ha preso piede anche in Italia e in diversi altri paesi, prevalentemente “occidentali”. Tuttavia, la sua origine è molto antica, risalente al Capodanno celtico, lo “Samhain”, che celebrava il passaggio dalla stagione estiva a quella autunno-invernale, e quindi la fine del raccolto e il suo immagazzinamento come riserva per i duri e freddi giorni a venire; in questo periodo, in cui si passava dalla luce delle lunghe giornate estive al veloce calare delle tenebre autunnali e invernali, si credeva che il confine tra il mondo terreno e l’“Aldilà” si assottigliasse, tanto da permettere alle anime dei defunti (che riposano sotto terra, proprio come i semi piantati in Autunno per l’anno a venire, durante l’Inverno) di oltrepassarlo per andare a trovare i vivi… La cosa era abbastanza inquietante! Per “ingraziarseli”, ed evitare eventuali vendette, la gente preparava del cibo, soprattutto dolci, da offrire loro in caso di visite, nonché delle luci per indicargli la strada di casa, che consistevano in candele racchiuse dentro rape intagliate a questo scopo… Ed ecco spiegati gli stuoli di bambini e ragazzi travestiti da fantasmi, streghe e mostri vari, che la notte di Halloween bussano alle porte delle case, muniti di appositi contenitori, pronunciando la famosa e minacciosa richiesta: “Dolcetto o Scherzetto?” (in inglese: “Trick or Treat?”); le figure impersonate rappresenterebbero gli spiriti “malintenzionati”, per acquietare i quali, ed evitare eventuali brutti scherzi da parte loro, la gente si premura di avere in casa una scorta sufficiente di dolciumi da regalargli… La celebre zucca illuminata all’interno sostituirebbe le primitive rape, poiché, oltre ad essere più grande e quindi più facile da intagliare, è un ortaggio che si trova più facilmente negli Stati Uniti, da dove questa tradizione è giunta fino a noi…Ma come mai proprio da qui, nonostante la sua origine sia celtica? Perché l’Irlanda è diventata la terra che ha ereditato maggiormente questa antica cultura, e quando, a partire dal 1800, molti Irlandesi emigrarono in America, spinti dalla povertà e in cerca di fortuna, portarono con sé queste usanze, che si diffusero poi a una gran parte del mondo occidentale. La zucca, con la sua smorfia ricavata nella scorza e la candela all’interno, si ricollegherebbe anche alla leggenda di “Jack-o’-lantern”: questi era un furbo fabbro irlandese, ubriacone, che riuscì ad ingannare più volte il Diavolo, incontrato una sera in un pub. Cominciò chiedendogli di trasformarsi in una moneta, che gli consentisse un’ultima bevuta prima di consegnargli la sua anima: con la sua astuzia, egli riuscì ad ottenere altri 10 anni di vita, al termine dei quali, però, il Signore delle Tenebre si ripresentò; ma, con un ulteriore stratagemma, Jack riuscì nuovamente ad evitare l’Inferno! Tuttavia, essendo stato in vita un grande peccatore, non gli fu permesso di entrare neanche in Paradiso, e così la sua anima fu costretta a vagare nel mondo dei vivi, scaldandosi e illuminandosi la via con un tizzone ardente lanciatogli dal Diavolo per scacciarlo dall’Inferno. La zucca-lanterna posta fuori dalle soglie delle case gli indicherebbe che lì non c’è posto per lui…

Simili usanze, concernenti il legame tra il mondo dei vivi e quello dei morti, in cui s’intrecciano antichi elementi pagani e cristiani, si riscontrano anche in varie zone d’Italia, e sono spesso caratterizzate dalla preparazione dei cosiddetti “Dolci dell’Anima”: le “fave dolci” o, appunto, “fave dei morti”, in Lombardia, Emilia-Romagna, Marche, e Umbria; le “ossa di morto”, sorta di biscotti oblunghi con questa forma, e poi la “puppacena” e la “martorana” in Sicilia; “o’ morticiello” a Napoli, goloso torrone glassato con cioccolato; “i papassinos”, dolcetti di pastafrolla con uva passa, mandorle, noci e spezie, che i ragazzini mascherati richiedono di casa in casa in Sardegna, esclamando: “sòe su mortu mortu!”…

Insomma, nonostante oggi molte sue manifestazioni “scadano” nel commerciale, la permanenza in molti luoghi di tradizioni antiche legate a questa festa rivela, forse, il bisogno ancestrale e comune di noi esseri umani di ricordare i nostri cari scomparsi dalla vita terrena, nonché di esorcizzare la morte stessa, potendoli magari incontrare nuovamente su questa terra almeno una volta all’anno, e cioè in questa magica notte, in cui è permesso attraversare quel velo sottile.

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Vittoria Montemezzo  

Sono nata nel 1977, ho un diploma di liceo linguistico, mi piacciono i bambini, la natura, la storia e le culture antiche…e l’essere umano in generale. Dal 2015 sono insieme ad un compagno disabile in sedia a rotelle.

LO STEREOTIPO ITALIANO

Lo stereotipo è l’idea o immagine semplificata e largamente riconosciuta di un particolare tipo di persona o cosa. Apparentemente, tutti quanti facciamo riferimento a stereotipi. Tutto il mondo ne è pieno e anche l’Italia ne ha un molti. In primis quelli che utilizziamo all’interno del nostro paese, ma sopratutto quelli che esportiamo in giro per il mondo. E quindi…

Come ci vedono all’estero e quali sono gli stereotipi più diffusi sull’Italia?

Cominciamo con questa carrellata di curiosi stereotipi che ci contraddistinguono come un marchio di fabbrica, quasi a voler dire che essere italiani è un vanto e allo stesso tempo qualche volta ci lasciano perplessi perchè forse stereotipi legati ad un italianità che oggi è più unica che rara, in quanto a livello generazionale molti di questi aspetti si stanno perdendo nel tempo. 

All’estero si parla tanto dell’Italia e degli italiani, argomenti di punta ci legano inesorabilemente alla storia, la cultura e la cucina di cui il nostro paese è veramente pieno.

Partiamo con l’elencare e descrivere alcuni degli stereotipi legati alla persona:

Gesticoliamo troppo?

E’ inevitabile che spesso ci facciano notare e ci venga attribuita la fama di gesticolatori, perchè fondamentalmente noi italiani non ci accontentiamo di infiocchettare un discorso importante o meno senza utilizzare con estrema semplicità i gesti delle mani. Con il rischio di sembrare animali selvaggi il nostro marchio di fabbrica ci impone di comporre una sinfonia verbale utilizzando come strumento anche la gesticolazione, siamo dei veri maestri in questo.

Il volume della voce?

Non è per tutti, però è innegabile che spesso e volentieri all’estero, quando ascoltiamo parlare qualcuno con un tono di voce “al di sopra del limite consentito” molte persone pensano subito “Quello è italiano!”. Altro marchio di fabbrica che spesso crea uno stereotipo è il tono della voce. Stiamo ancora cercando la levetta per abbassare il volume, ma non abbiamo idea di dove sia.

La mamma è sempre la mamma

E’ innegabile, vuoi che le statistiche europee parlano chiaro, cioè che i giovani italiani in media lasciano casa dei genitori molto tardi (30/33 anni), vuoi che non possiamo fare a meno in amore e odio della buona cucina della mamma. Gli Italiani vengono visti come eterni mammoni.

La cucina più buona del mondo?

La cucina più buona del mondo è italiana?, un italiano ti risponderebbe di si, all’estero 7 persone su 10 direbbero lo stesso. Lo stereotipi più diffuso all’estero riguarda la pasta e la pizza, sono praticamente i nostri trofei più preziosi di cui andiamo fieri. La nostra cucina però come ben sappiamo è rappresentata da una varietà molto più vasta, basti solo pensare che ogni regione italiana ha il proprio piatto rappresentativo, i propri prodotto locali, le bevande e tipologie diverse di preparazione dei piatti con metodi di cottura di ogni tipo. Siamo inoltre grandi produttori e consumatori di bevande alcoliche, con vini, liquori e grappe invidiate ed esportare in tutto il mondo.

Lo stereotipo del cibo per molto tempo ci ha confinati a pochi piatti conosciuti in tutto il mondo, fortunatamente la cultura culinaria è sempre più esportata all’estero, ma ovviamente un tour culinario nel nostro stivale è più che consigliato per chi vuole realmente scoprire l’elevata offerta che la cucina può offrire. Insomma, possiamo affermare che viviamo nel paese più bello del mondo e con la cucina più buona del mondo.

Siamo sempre alla moda

Più che il come ci vestiamo qui a casa nostra, perchè è innegabile che la forma di stile non sia una cosa che si vede tutti i giorni, non abbiamo l’usanza di andare a fare colazione al bar in smoking; però l’Italia che si vende all’estero ha un notevole pregio, il Made in Italy dell’alta moda è sicuramente un’altro fiore all’occhiello, tanto che se all’estero pensano che noi italiani siamo sempre vestiti bene e molto curati. I marchi più prestigiosi calcano le passerelle più famose di tutto il mondo ed è impossibile negarsi del buon sano shopping se si visita il nostro paese. Insomma, siamo visti come quelli sempre ben vestiti, curati e profumati… non sempre e non dappertutto, però ci piace.

In fondo essere Italiani non è poi così male.

Samuele Scafuro

Concrete Onlus

La vita è un mistero e nonostante tutti i nostri progressi scientifici, tecnici e filosofici non riusciremo mai a capirne completamente il significato. Questo dovrebbe in qualche modo renderci felici perché trasforma la vita in un gioco che avrà sempre continue e nuove scoperte e non finirà mai di stupirci.

Attenzione però all’arroganza del genere umano che vuole essere in controllo di tutto e ha la presunzione di conoscere tutto e di non dipendere da nessuno. Questa è la presunzione che ha ingenerato nelle religioni monoteistiche moderne (ma l’idea era presente anche prima in molte altre religioni in diverse parti del mondo) il “peccato originale” il disubbidire a Dio, il non stare al nostro posto, il volere essere più grandi di quello che siamo, allo stesso livello del Creatore. 

Ma è lo stesso peccato dei materialisti, dei consumisti, degli atei o degli agnostici che mettono al centro del mondo e dell’universo l’uomo, dimenticando tutto quello che ci sta intorno, facendosi grandi mentre siamo piccoli, volendo controllare e modellare al proprio servizio quell’entità immensa e onnipresente che è Madre Natura.

Sono entrambi comportamenti che prolungati nel tempo porteranno alla distruzione della nostra stirpe, o per mano divina o per mano della natura che non ci “sopporterà” più.

Fondamentalmente l’essere umano non sa stare al suo posto, quel posto che Dio/la Natura gli hanno assegnato, un posto privilegiato, di vantaggio, di controllo, ma che se manca di coscienza, di modestia e di rispetto ci poterà all’autodistruzione.

E’ questo che vogliamo per noi ma soprattutto per i nostri figli? Con quali occhi ci guarderanno quando si renderanno conto di come gli abbiamo lasciato il globo, di come non abbiamo fatto niente per conservarlo almeno un po’. Conosco persone che hanno smesso di fumare perché non avrebbero sopportato lo sguardo di rimprovero dei figli allorchè si fossero ammalati di cancro. Noi però ci stiamo “fumando il mondo”, lo stiamo proprio mandando in fumo!

E allora torniamo a giocare questa “partita” che è la vita rispettando le sue regole, scegliendo giochi dove non ci sia “l’asso pigliatutto” che laddove arriva fa piazza pulita e rimane il deserto ma competizioni dove ci sia posto per tutti secondo il principio decoubertiano di partecipazione dove la vittoria è piacevole ma non essenziale.

Claudio Fontana

Presidente Concrete Onlus