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La Legge 22 giugno 2016, n. 112, conosciuta come “Dopo di Noi”, è stata recepita anche dalla Regione Piemonte per garantire un sistema di assistenza e protezione dedicato alle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare.

Questa legge si rivolge in particolare a coloro che non possono contare sull’appoggio dei genitori o di altri familiari, a causa di età avanzata, problemi di salute o altre situazioni di impedimento. L’obiettivo principale è quello di offrire un percorso di vita dignitoso e il più possibile autonomo anche in assenza della famiglia.

Il piano di interventi prevede misure personalizzate che includono:

  • Supporto alla domiciliarità;
  • Soluzioni abitative alternative all’istituzionalizzazione;
  • Programmi di autonomia individuale e inclusione sociale;
  • Progetti educativi e assistenziali continuativi.

Con il programma “Dopo di Noi”, la Regione Piemonte intende evitare il ricorso a strutture residenziali standardizzate, incentivando invece percorsi individualizzati che favoriscano la permanenza nei propri contesti di vita o in ambienti accoglienti e familiari.

Si tratta di un passo fondamentale verso una visione inclusiva e attenta alle esigenze delle persone con disabilità grave, per costruire un futuro fatto di autonomia, dignità e partecipazione attiva alla vita sociale.

Cristina Zangone

Il 23 novembre 2023, l’INPS ha diffuso un aggiornamento ufficiale sulle modifiche normative relative ai permessi e al congedo straordinario previsti dalla Legge 104/1992, volta a tutelare i diritti delle persone con disabilità e dei loro caregiver.

Congedo Straordinario e Permessi: Le Ultime Novità

L’INPS ha chiarito che:

  • Il congedo straordinario può essere richiesto da un solo familiare alla volta per l’assistenza a una persona con disabilità grave, fatta eccezione per i genitori, che restano entrambi referenti.
  • I permessi retribuiti possono essere usufruiti anche da più persone che assistono lo stesso soggetto disabile.
  • È possibile usufruire del congedo straordinario anche durante i periodi di fruizione dei permessi mensili o del prolungamento del congedo parentale per la medesima persona.

L’INPS invita tutte le sedi territoriali a riesaminare le domande in corso e ad adeguarsi alle nuove disposizioni.

I Principi Fondamentali della Legge 104/1992

Promulgata il 5 febbraio 1992, la Legge 104 è la principale normativa italiana a tutela dei diritti delle persone con disabilità. L’articolo 1 stabilisce:

  • Il rispetto della dignità della persona con disabilità;
  • La rimozione degli ostacoli che ne limitano l’autonomia;
  • Il recupero attraverso servizi personalizzati;
  • La lotta all’emarginazione sociale.

Chi può beneficiare della Legge 104

Oltre alla persona disabile riconosciuta, i beneficiari comprendono genitori, coniugi, conviventi e parenti fino al secondo grado, estendibili al terzo in casi particolari.

Come accedere ai benefici della Legge 104

  1. Il medico curante trasmette all’INPS la certificazione di disabilità.
  2. Il richiedente presenta la domanda sul portale INPS o tramite il Contact Center.
  3. Entro 30 giorni (15 per patologie oncologiche), si viene convocati per visita medica presso la Commissione ASL.
  4. Il riconoscimento può essere definitivo o soggetto a revisione.

Le Agevolazioni Previste

  • Inserimento lavorativo e scolastico;
  • Rimozione delle barriere architettoniche;
  • Detrazioni fiscali al 19% e IVA agevolata al 4% per dispositivi, spese mediche e veicoli adattati;
  • Permessi lavorativi retribuiti e flessibilità lavorativa tramite smart working.

Permessi e Congedi: Modalità e Requisiti

  • Il lavoratore con disabilità può richiedere 2 ore di permesso al giorno o 3 giorni al mese.
  • I genitori possono beneficiare di permessi giornalieri o mensili fino ai 12 anni del figlio e del prolungamento del congedo parentale.
  • Dopo i 12 anni restano validi solo i 3 giorni mensili frazionabili.

I permessi retribuiti sono riservati ai lavoratori dipendenti. Non sono concessi se il disabile è ricoverato in struttura, salvo eccezioni (patologie terminali, stato vegetativo, necessità del medico).

Fine del Referente Unico

Una novità importante è l’abolizione del principio di “referente unico”: ora, più persone possono condividere l’assistenza alla stessa persona con disabilità, garantendo una gestione più equa e flessibile delle esigenze familiari.

La Legge 104/1992, con le sue recenti modifiche, rafforza il sistema di tutele per le persone con disabilità e per le loro famiglie, migliorando l’accesso ai diritti e promuovendo una maggiore inclusione nel contesto lavorativo e sociale.

Cristina Zangone

Il Centro Universitario Sportivo Italiano (CUSI) continua a distinguersi per l’impegno nella promozione dell’inclusione sociale attraverso lo sport, avviando numerosi progetti su scala nazionale e locale, dedicati alle persone con disabilità.

Nel 2021, nell’ambito del progetto “Centro Documentazione Sport Inclusivo”, è stato lanciato un portale gratuito e accessibile che funge da hub nazionale per la raccolta e diffusione delle buone pratiche legate allo sport inclusivo. La piattaforma offre visibilità alle attività sportive promosse dai Centri Universitari Sportivi (CUS), fornendo risorse utili e modelli replicabili per incentivare la partecipazione attiva delle persone con disabilità nel contesto universitario e oltre.

Nel novembre 2022, il CUSI ha inoltre dato vita al progetto “SPONC – Sport Non Convenzionale per Tutti”, coinvolgendo venticinque delegazioni CUS in una serie di eventi territoriali. Le giornate hanno visto la partecipazione di studenti, atleti, docenti, amministratori locali e operatori del settore sportivo, creando occasioni di scambio, formazione e sensibilizzazione sui temi dell’accessibilità e della pratica sportiva per tutti.

Grazie a queste iniziative, il CUSI si conferma promotore di un cambiamento culturale concreto, contribuendo a rendere lo sport uno strumento di integrazione, empowerment e cittadinanza attiva per tutte le persone, senza distinzione.

Cristina Zangone

Esplorando la Galleria degli Uffizi di Firenze, s’incontrano i ritratti di due coniugi, l’uno voltato di profilo verso sinistra e l’altra verso destra, come a guardarsi, e in effetti una volta facevano parte della stessa cornice. Questa modalità di raffigurazione ricorda le antiche monete o medaglie, o i “dittici consolari” o i cammei del tardo Impero Romano, ai quali sicuramente essi sono ispirati, dal momento che risalgono all’epoca rinascimentale, una delle cui caratteristiche peculiari era l’ammirazione e lo studio del mondo classico antico, nonché la sua originale “rivisitazione”; essi sono raffigurati in primo piano, nei minimi particolari, contro lo sfondo di un paesaggio naturale di laghi e colline che si allontana a perdita d’occhio, avvolto in una luce chiarissima, che fa apparire le due figure come “sospese”, poste in una realtà ideale, armoniosa ed eterna. La donna, dal volto candido -come richiedeva l’etichetta di allora alla nobiltà- e vestita con un abito femminile dell’epoca sobrio ed elegante, presenta un’elaborata acconciatura dei capelli, e porta al collo una collana di perle, mentre l’uomo indossa un abito e un copricapo di colore rosso, tipici dell’epoca e del suo “status” di signore; i suoi lineamenti così realistici sono marcati, e rivelano un volto che non si può definire propriamente bello, con un naso particolare e aquilino, dai capelli irsuti e dallo sguardo fiero. Ma chi sono dunque questi due personaggi?  I Duchi di Urbino, Federico 3° da Montefeltro e sua moglie Battista Sforza, e l’autore dell’opera non è altri che il celebre pittore rinascimentale Piero della Francesca, intimo amico del Duca Federico: quest’ultimo infatti  fu un uomo di grande cultura -oltre che un audace condottiero e un abile politico-, che si circondò nella sua corte di artisti e letterati, e riuscì a trasformare il ducato di Urbino in uno dei centri artistici e culturali più importanti del Rinascimento italiano, secondo solo a quello di Firenze governato da Lorenzo il Magnifico. Questo suo guadagno di notorietà e prestigio non fu tuttavia privo di aspetti oscuri, spregiudicatezza nelle alleanze e una buona dose di violenza -come d’altra parte avveniva di frequente all’epoca delle Signorie, durante le vicissitudini della loro affermazione: pare, ad esempio, che egli non fosse stato del tutto estraneo alla congiura ordita ai danni del suo fratellastro Oddantonio, terminata con l’assassinio di questi, che in effetti aprì la strada alla sua scalata al potere; questa continuò fino al 1474, anno in cui raggiunse il culmine della sua fama, venendo ufficialmente nominato Duca di Urbino dal papa Sisto 4°, nonché Gonfaloniere della Chiesa. Durante quegli anni fu capitano di ventura di diverse sanguinose battaglie, in particolare contro il suo acerrimo nemico Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini: l’ostilità tra le due casate risaliva addirittura alla metà del Duecento, e ai motivi politici -territoriali ed economici- si aggiungeva un sentimento di forte antipatia personale tra i due.

Intorno al 1450, probabilmente nel corso di un torneo per festeggiare la nomina a Duca di Milano di Francesco Sforza, Federico ricevette un colpo di lancia al viso, che gli frantumò il ponte nasale e penetrò nel suo occhio sinistro, causandone la perdita, motivo per cui in seguito si fece ritrarre solo di profilo e dal lato sinistro, come in questo famoso dipinto.

Successivamente, egli si alleò soltanto col suddetto Francesco Sforza, e fu partecipe della famosa “Congiura dei Pazzi”, avvenuta all’interno del Duomo di Milano contro i Medici di Firenze; questa tuttavia fallì in parte, contribuendo anzi all’accrescimento della fama e del prestigio di Lorenzo il Magnifico. Comunque, le innumerevoli vittorie belliche conseguite da Federico furono spesso ottenute con stratagemmi attuati per evitare gli scontri armati: egli fu dunque spietato con chi gli resisteva ma magnanimo con coloro che si arrendevano. Gli ingenti guadagni derivati dalle imprese militari gli permisero di mantenere la sua splendida corte, e in particolare di edificare il Palazzo Ducale di Urbino e quello di Gubbio -dove egli era nato-, e inoltre di costruire e rinforzare rocche difensive; nonché, dato il suo profondo amore per la cultura, allestire una delle più importanti biblioteche dell’epoca. Ancora, da grande mecenate, come si diceva, chiamò ad operare alla sua corte, oltre al sopra citato Piero della Francesca, i pittori Paolo Uccello, Giusto di Gand e Pedro Berruguete, e inoltre il matematico Luca Pacioli e gli architetti Maso di Bartolomeo, Luciano Laurana e Francesco di Giorgio Martini; quest’ultimo, artista poliedrico, fu anch’egli suo amico e confidente, e divenne suo consigliere personale.

Senza contare una simile propensione per la cultura di sua moglie, Battista Sforza: nonostante la differenza di età -quando si sposarono lui aveva 38 anni e lei solo 14-, il loro fu quindi un matrimonio felice; ella aveva inoltre spiccate doti di governo, che dimostrava assumendo la funzione di vicario durante le lunghe ma necessarie assenze del marito.

Questi nutriva nel suo animo anche un profondo senso del sacro, probabilmente originatosi negli anni della sua infanzia, trascorsi a contatto con i monaci benedettini dell’Abbazia di Gaifa -vicino ad Urbino; in seguito ricevette una severa educazione religiosa da parte di alcuni monaci camaldolesi provenienti dal monastero di Fonte Avellana, non lontano da Gubbio, che gli fecero da precettori personali all’interno del suo contesto familiare, quello dei Montefeltro, i quali erano imparentati con il papa di allora, Martino 5°, nonché già da tempo Vicari Apostolici. Nel 1435, tredicenne, incontrò poi San Bernardino da Siena, che conquistò la sua stima e fiducia, tanto da indurlo a seguirne la direzione spirituale nel corso di tutta la sua vita. La “Bibbia di Montefeltro”, rara copia miniata del testo religioso, fu la sua Bibbia personale, che egli custodiva nella sua preziosa biblioteca e portava con sé anche durante le condotte militari, ed è attualmente conservata nella Biblioteca Apostolica Vaticana.

In sostanza, il governo “illuminato” di Federico da Montefeltro, caratterizzato da sapienza e moderazione, rappresentò l’apice dello splendore per la città di Urbino, dando luogo ad una magnifica vita di corte, alla quale s’ispirò l’umanista e letterato Baldassarre Castiglione nello scrivere il suo celebre trattato, “Il Cortegiano”: tramite il quale questi introdusse in Europa il concetto delle doti proprie del cosiddetto “gentiluomo” -o meglio ancora, del “principe” -, ampiamente seguito fino al 20°secolo…

Vittoria Montemezzo

Nella provincia di Macerata, nelle Marche, sulla cima quasi pianeggiante di un colle, sorge un comune chiamato Recanati, diventato famoso, in particolare, per essere stato la città natale di un celebre poeta e letterato dell’‘800, che tutti i ragazzi italiani hanno incontrato sui libri di scuola fin dalle elementari: Giacomo Leopardi. Quando ero piccola, trovandomi quindi a leggere alcune sue poesie a scuola, avevo ricevuto l’impressione che, al loro interno, egli esprimesse un’idea così tanto malinconica, riguardo alle cose della vita, ad un punto tale che a me pareva di non riuscire a sostenerla, dentro di me, e tentavo quindi di respingerla con tutte le mie energie mentali! Ma crescendo, durante le superiori mi sono poi ricreduta, tanto da scegliere di portare il suo pensiero e la sua poetica come materia all’esame di maturità…

Egli nacque, dunque, nel 1798, in questo piccolo centro marchigiano -all’epoca facente parte dello Stato Pontificio-, che è una tipica “città-balcone”, in quanto da essa si può scorgere un vasto e bellissimo panorama su valli, colline e borgate circostanti. I suoi genitori, provenienti entrambi da una famiglia di nobili natali, furono molto severi, spesso decisamente rigidi, con i figli -ben dieci, dei quali Giacomo era il primo; tuttavia, purtroppo, soltanto cinque di loro, compreso lui, raggiunsero l’età adulta. Nonostante ciò, la sua infanzia trascorse piuttosto felice: egli giocava molto e allegramente con i suoi fratelli, in particolare con i due più vicini di età, Carlo e Paolina; a volte era un po’ prepotente, e altre gridava gioioso correndo in giardino… Ma presto le cose cambiarono: la madre, Adelaide degli Antici, era una persona fredda e distante, incapace di dimostrare l’affetto di cui lui avrebbe avuto bisogno, e per di più era molto legata alle convenzioni sociali, nonché  religiosa fino alla superstizione; mente il padre, il conte Monaldo Leopardi, aveva idee reazionarie ed era interamente dedito agli studi, tanto da non accorgersi del disagio che cominciava a farsi largo nell’animo del figlio. Il quale, inoltre, dall’adolescenza cominciò a manifestare i segni di una malattia fisica altamente invalidante, che il neurochirurgo dott. Erik P. Sganzerla dell’Ospedale San Gerardo-Università Bicocca, appassionato studioso di Leopardi, ha identificato come una Spondilite Anchilosante giovanile: tale malattia colpisce in particolare la colonna vertebrale, causando rigidità e deformazione di questa, nonché dolori, gracilità di costituzione e tutta una serie di altri problemi di salute correlati: il giovane Leopardi aveva insomma di che soffrire, proprio all’inizio della sua esistenza; è sbagliato però credere che sia stata unicamente la sua sofferenza personale a spingerlo ad elaborare una filosofia di vita così pessimistica, come ci è piuttosto noto dai ricordi di scuola… Fin da bambino egli dimostrò un’intelligenza vivace ed un profondo interesse per la cultura, che lo portarono a gettarsi a capofitto nello studio -che in seguito egli definì “matto e disperatissimo”-, nella nutrita biblioteca paterna, all’interno del loro grande palazzo di famiglia; esso divenne infatti il suo rifugio, l’unico mezzo che aveva a disposizione per esprimere le sue potenzialità, sebbene in maniera necessariamente solitaria, in quanto giovane rampollo di famiglia nobiliare e quindi fin dall’inizio destinato a studiare privatamente. Arrivò così ad appassionarsi alle lingue e culture antiche, traducendo dal Latino, dal Greco e dall’Ebraico, e sviluppando una teoria sul Mito, come espressione delle antiche culture, appunto, le quali, vivendo in modo più semplice e a contatto con la natura, avevano potuto coltivare i loro sogni e la loro immaginazione e, in sostanza, una certa felicità.

Negli anni 1815-1816, cioè a diciassette – diciott’anni, dall’amore per il sapere passò a quello per la bellezza, nell’arte e nella letteratura, e tentò d’inserirsi nel dibattito culturale dell’epoca, incentrato sul dissidio tra classicisti e romantici: la sua posizione alla fine non rientrò in alcuno dei due “schieramenti”, poiché lui li superò entrambi, giungendo a una concezione della vita che si può forse dire “materialistica” e atea, e che lo portò a produrre scritti  filosofici come le “Operette Morali”, ma anche lirici e struggenti come i “Canti”, in particolare gli “Idilli”, ritornando con questi alla poesia, che in seguito non abbandonò più. Nonostante i suoi gravi disturbi fisici, egli si rivelò instancabile nelle sue “esplorazioni culturali” e nei suoi viaggi, lontani dal suo “natìo borgo selvaggio”, tra Milano, Bologna, Firenze e Pisa, tutt’altro che un povero giovane depresso ripiegato su sé stesso…

Era profondamente convinto che la razionalità, la conoscenza e il progresso scientifico, propri della civiltà moderna, avessero necessariamente operato il distacco dell’essere umano dalla natura, causandone l’infelicità. In seguito il suo pensiero si spinse oltre, il suo pessimismo divenne “cosmico”, giungendo alla teoria che la Natura, in fondo, sarebbe una “matrigna” rispetto a tutti gli esseri viventi -in particolare per il genere umano, che parrebbe averne maggiore consapevolezza-, giacché si nasce, si vive, si soffre e, infine, si muore, nella sua totale “indifferenza” nei nostri confronti: tale sarebbe la nostra misera condizione; ma è proprio per questo motivo che gli esseri umani, invece che ostacolarsi, odiarsi e arrivare persino ad uccidersi l’un l’altro, specie con le guerre, dovrebbero unirsi in una lega fraterna per cercare di combattere le enormi avversità che la natura può riservare, nel suo moto incessante e indifferente. Leopardi espresse chiaramente questo suo pensiero ne “La Ginestra”, uno dei suoi ultimi “Canti” -scritto durante il suo soggiorno a Napoli, trascorso insieme all’amico Antonio Ranieri-: lungo al punto da poter essere considerato un “poemetto filosofico”, esso presenta anche una forte critica, sotto forma di amaro sarcasmo, alla cieca fiducia di molta gente della sua epoca nel cosiddetto “Progresso” della civiltà umana. Così la Ginestra, quest’umile piantina capace di crescere sulle pendici ricoperte di lava ormai spenta del vulcano Vesuvio, diventa un simbolo dell’eroica resistenza contro l’annientamento più totale. E, in tutto ciò, con la sua tensione verso “il vago e l’indefinito”, la poesia diviene il principale strumento di ricerca del piacere e della felicità, e quindi di quell’ “assoluto” e quell’“infinito” ai quali anela la nostra anima tormentata, mitigando almeno in parte la nostra sofferta inquietudine…

Vittoria Montemezzo